Si è chiusa pochi giorni fa la nona edizione del Seeyousound International Music Film Festival che ha visto una grande partecipazione di pubblico con sale piene anche in settimana. Quest’anno, tra i film in programma, numerosi sono stati i lungometraggi, documentari, cortometraggi e videoclip diretti da registe donne o guidati da lead female characters. Uno di questi è stato “Sonne” della giovane regista curdo-viennese Kurdwin Ayub, premiato a Berlino 2022 dalla giuria con il GWFF Best First Feature Award e menzione speciale nella sezione LP Feature di questa edizione di Seeyousound.
In una Vienna frenetica e vista per lo più attraverso il filtro delle storie Instagram, Yesmin, adolescente curda di origini irachene, e le sue amiche Bella e Nati si riprendono per gioco mentre cantano “Losing my Religion” indossando l’hijab, che Yesmin utilizza regolarmente nella vita di tutti i giorni. Il video finisce su Youtube e diventa virale, attirando l’attenzione della comunità curda e musulmana viennese sulle tre ragazze. Nonostante la disapprovazione della madre, inizialmente Yesmin si lascia prendere dal gioco, con il padre che fa da manager alle ragazze e le porta in giro, tra matrimoni e feste tradizionali. Ben presto, però, i dubbi si insinuano nella mente di Yesmin: che valore ha l’hijab in quel video e che valore ha nella sua vita quotidiana, soprattutto quando si ritrova a doverlo giustificare agli occhi delle sue amiche o di uomini musulmani che pensano di poterle dire come usarlo.
Ciascuno di noi attraversa fasi della vita in cui il tema della ricerca della propria identità si fa più urgente e disperato. Per alcuni questa ricerca raggiunge il culmine nel periodo adolescenziale, per altri dura tutta una vita. Può poi capitare che l’indagine personale si intersechi e venga compromessa da un costrutto sociale che pretende di dirti (se non importi) come devi essere e come devi vivere l’appartenenza ad una comunità o ad una tradizione. È questo che capita a Yesmin, giovane protagonista del film.
Se da un lato è la musica che innesca il meccanismo narrativo, nel suo sviluppo la trama ruota intorno all’hijab, come simbolo e come oggetto. Quello dell’hijab è un tema particolarmente complesso in questo periodo storico e in Italia ancora manca un discorso articolato e problematizzato che ci permetta di comprenderne sì le contraddizioni ma anche il valore – o meglio, c’è ma aleggia in superficie, e non è ancora abbastanza radicato nel nostro retaggio culturale. Per alcune donne è un simbolo di libertà, per altre la libertà sta nel toglierlo, in seno alle proteste partite in Iran molte donne lo stanno togliendo per solidarietà e in segno di resistenze, sebbene non lo percepiscano come simbolo di costrizione, anzi. Sembra, infatti, che molto dipenda dall’interpretazione personale del Corano e che l’idea che il velo sia espressione di un costrutto patriarcale è di per sé una sovrastruttura patriarcale. Tali complesse ed intense riflessioni sul tema, però, le lasciamo alle esperte e agli esperti e torniamo a parlare del film.
Ciò che sorprende di quest’opera prima è il modo naturale e spontaneo in cui il tema viene trattato. La scelta del teen drama e la costante, quasi invadente, incursione dei social media rende, infatti, leggero qualcosa che leggero non è. In maniera sfrontata e quasi provocatoria la regista mostra una quotidianità e uno stile di vita che sovverte tutti i tipi di pregiudizi che nella società occidentale abbiamo nei confronti delle adolescenti e giovani donne musulmane, mostrandoci una realtà molto diversa da quella che probabilmente ci immaginiamo o, usando una parola anacronistica, per noi “normale”. Una madre estremamente religiosa e devota alla tradizione, distrutta da un passato di repressione (quella tuttora subita dai curdi) che usa il velo solo durante i momenti di preghiera. Un padre bambino che spinge la figlia a cavalcare l’onda del momentaneo successo. Un fratello minore in balia di cattive amicizie. Una ragazza, Yesmin, che per la prima volta nutre dei dubbi sulle proprie scelte e comincia ad interrogarsi sulla tradizione a cui appartiene. La protagonista è divisa tra una gabbia domestica in cui sembra che tutti debbano ancora crescere senza sapere bene in che direzione, e un gruppo di amiche che la accettano senza farsi domande sulla sua identità, senza capirla davvero, presenti fintanto che lei fa il loro gioco ma incapaci di difenderla nel momento del bisogno.
Ecco che tanto l’arena di personaggi improbabili e apparentemente inconciliabili, quanto la presenza azzardata ma coerente dei social media, contribuiscono a creare un mondo in cui giusto e sbagliato si confondono e le regole, costantemente infrante più o meno coscientemente, diventano liquide fino a non capire quali siano ancora importanti e quali no.
“Sonne”, con il suo stile impreciso ma elegante, è il lucido e provocatorio ritratto di una giovane donna che cerca di capire come dovrebbe essere, come la società la vuole, come vuole essere lei stessa e quale delle tre sia più importante. Il cuore del film, infatti, è cristallizzato in un breve scambio di battute tra Yesmin e la madre. «Che cosa vi importa del mio aspetto?» chiede Yesmin alla madre che risponde secca «Non riguarda te!», ma la ragazza ribatte decisa «E invece sì».